Sesto giorno prima delle Idi di luglio
Il giorno dopo, nel corridoio del Palatino, Aurelio aspettava seduto su una panca di legno istoriato, senza troppo ottimismo. Dentro le pieghe della toga nascondeva i due biglietti e un culmo vuoto con un paio di aghi: non molto, per denunciare una congiura!
Il pretoriano sull'attenti davanti alla porta, pur fingendo di guardar dritto davanti a sé, non lo perdeva di vista un momento. Aurelio attendeva da un'ora, con pazienza, tormentandosi nervosamente il laticlavio color porpora della tunica, mentre per calmare l'ansia osservava il via vai indifferente dei domestici e delle guardie. Aveva visto passare anche Pallante, il potentissimo segretario dell'imperatore che, in pochi anni di fulminante carriera, da schiavo era diventato ministro.
Il liberto si era fermato davanti a lui, piantandogli ostentatamente gli occhi addosso, in attesa dell'omaggio adulatore che ormai anche i nobili gli tributavano umilmente, nella speranza di entrare nelle sue grazie. Il senatore Stazio lo aveva fissato a sua volta, con la fronte corrugata, come se si sforzasse invano di ricordarne il nome. Pallante, le labbra strette dalla stizza, se ne era andato senza ottenere il doveroso ossequio: un nemico in più, aveva pensato Aurelio, ma a quel punto tanto valeva salvare l'amor proprio.
A un tratto, sul chiacchiericcio ozioso dei servi emerse un acuto potente e irrimediabilmente stonato, che pareva provenire da un punto imprecisato dietro le ginocchia dei due scrivani fermi davanti a un ufficio. I contabili si guardarono attorno, perplessi, cercando la fonte del rumore molesto.
Il cantante apparve all'improvviso, sgusciando sul pavimento tra i piedi degli scribi: era un bimbetto grassoccio, armato di un'enorme cetra, da cui, ahimè, traeva una disgraziatissima cacofonia di suoni striduli.
Il pargolo era palesemente alla ricerca di un pubblico e, adocchiato il senatore del tutto inattivo sulla panca, si affrettò a emettere l'ultima stecca prima di chiederne l'illuminato parere.
- Che ne dici? - domandò, aspettando con ansia il verdetto.
Aurelio si morse la lingua: che senso avrebbe avuto, per un patrizio di nobile stirpe in attesa di essere accusato davanti all'imperatore, deludere un povero piccolo tanto orgoglioso della sua voce, comunicandogli l'amara verità?
- Stupendo, degno di Orfeo! - mentì quindi distrattamente il senatore, sperando che non ricominciasse.
- Da grande farò l'artista! - dichiarò il bambino, estasiato. - Sono un poeta, io, un musico, mica come tutti questi burocrati... pensa che noia fare il ministro, o addirittura l'imperatore! Gente gretta, meschina, che pensa solo ai soldi e non capisce niente, né di arte né di melodia.
- Lucio Domizio, vieni subito qui! - lo richiamò un'ancella. - Quante volte ti ho detto che non devi importunare gli ospiti del tuo prozio con quello strazio delle tue canzoni?
Aurelio stava per intervenire in favore del bambino, quando la porta si aprì e uno schiavo gli fece segno di prepararsi a comparire al cospetto di Claudio.
L'imperatore sedeva al suo tavolo di lavoro ingombro di carte. In piedi davanti a lui, i Sergii, fratello e sorella, fissavano il patrizio minacciosi.
- Aurelio... - cominciò Claudio, imbarazzato. - Ho qui una denuncia molto grave contro di te: Maurico ti accusa di aver ucciso Nissa nella tua stessa lettiga. Dice che gli hai anche aizzato contro la folla, spingendola a dar l'assalto a casa sua, e protesta che stai cercando di implicarlo falsamente in un affare di scommesse truccate, organizzato dal lanista Aufidio. Certamente potrai dimostrare l'infondatezza di queste deposizioni: cos'hai da dire a tua discolpa? - chiese con una voce stanca che sembrava sottintendere: “E io che da te mi aspettavo tanto...”.
A questo punto, pensò Aurelio, tanto valeva giocare il tutto per tutto. Con voce ferma cominciò a esporre, una per una, le sue ipotesi e i pochi fatti certi, dalla cerbottana che aveva ucciso Chelidone alla pozione adulterata che il gladiatore aveva bevuto, ai giochi truccati, via via attraverso Turio, Eliodoro, il Lurido, fino alla congiura. Quando mise nelle mani del principe i due scricchiolanti e inadeguati pezzetti di papiro che portava come uniche prove, gli parve di sentire il suono della propria vita che andava in pezzi, e, con esso, il rumore di un Impero che lentamente si sgretolava...
- Come ti dicevo, divino Cesare, quest'uomo è pazzo! Lo anima un astio ingiustificato verso la mia persona, che è fatta oggetto di una vera e propria persecuzione! Chiedo formalmente che tu vi metta fine, Cesare!
- Ma questo Lurido... - tentò Claudio, costernato.
- Uno sconosciuto, di cui non so niente... e dove sarebbe, poi, ammesso che esista? - chiese Maurico con un sorrisetto di scherno.
- Nel Tevere - replicò Aurelio. - Come Vibone e tutti gli altri.
- Lo senti, divino? Ha rapito la mia amante, l'ha uccisa nella sua stessa lettiga e ora...
- Non era l'amante tua, ma di tua sorella – dichiarò calmo il patrizio, fissando Sergia.
La donna, ritta in piedi a testa alta, sorrise beffarda. Ben sapendo quanto il vecchio Claudio fosse sensibile al fascino femminile, si era preparata a dovere per l'importante colloquio: le ornatrici avevano usato parecchi strati di biacca per levigare alla perfezione la sua pelle provata dagli anni e dagli stravizi, fino a renderla simile a quella di una giovinetta; tuttavia l'abuso del vino e delle droghe afrodisiache, di cui si diceva che Sergia facesse largo consumo, traspariva dal gonfiore delle palpebre un po' peste, ombreggiate di nero. Aurelio si sorprese a pensare che così sarebbe diventata Flaminia, se la terribile malattia non l'avesse sfigurata fino al punto da non permetterle più di mostrare il volto.
- Nissa si fidava di te, a suo modo ti voleva bene. E tu, Sergia, l'hai consegnata inerme nelle mani del Lurido! - disse con odio, sperando in cuor suo che la piccola mima fosse morta senza accorgersi dell'ultimo, estremo tradimento.
- Ma cosa credi che significhi questo foglio? – urlava intanto Sergio, come se un'intera basilica dovesse sentire la sua vibrante arringa. - Ti rendi conto, divino Cesare, che questo folle sta infangando la reputazione di un eroico generale del tuo Impero, soltanto perché ne ha trovato il nome sul guinzaglio della bestiola di un'attricetta da quattro assi? Pensa se qualcuno avesse chiesto l'arresto di Giulio Cesare per sedizione, sulla base di quanto inciso sul collare di un cane da guardia!
Claudio non alzava gli occhi dai fogli di papiro. Stanche, le palpebre abbassate rivolgevano al patrizio un messaggio accorato. Ad Aurelio sembrò di sentirlo dalla viva voce balbettante del suo vecchio maestro, attraverso le labbra serrate: “In che pasticcio mi hai messo, Aurelio? Questo delinquente ha ucciso, imbrogliato, cospirato. Ma io sono l'imperatore, e adesso è te che sarò costretto ad arrestare. Non dovevi farmi una cosa simile, maledetto zuccone!”.
- Chiedo di portare in giudizio il senatore Publio Aurelio per omicidio, calunnia e falsa testimonianza... non puoi negarmelo, divino Cesare. Che direbbe il popolo, già furente perché hai mandato i tuoi pretoriani a difendere la casa di questo pazzo? - scandì Sergio, e mise davanti al principe il suo atto di accusa.
L'imperatore rimase immobile per pochi istanti, che a tutti parvero lunghissimi: diviso tra l'affetto per il suo vecchio allievo e la spietata ragion di Stato che gli imponeva di favorire il suo mancato assassino, non riusciva a risolversi a prendere l'inevitabile decisione. Con tutto se stesso avrebbe voluto chiamare i pretoriani, far portar via Maurico e quella puttana di sua sorella, e rinchiuderli nel Mamertino, discolpando Aurelio. Però il suo potere, immenso e fragile a un tempo, si reggeva sul consenso delle grandi masse che, ai piedi del Palatino, brulicavano come formiche indaffarate nelle strade e nei vicoli dell'Urbe, pronte a sentenziare, giudicare, scatenarsi in una rivolta...
La mano rugosa, solcata dalle vene azzurrognole, si alzò impercettibilmente, portando l'anulare in cui brillava il sigillo imperiale più vicino all'inchiostro scarlatto che avrebbe sancito l'atto d'accusa... Il dito si arrestò a mezz'aria.
“Come posso?”, si chiese Claudio. “A che mi serve essere dio in terra, se sono costretto a sacrificare un vecchio amico per compiacere l'avversario che sta tramando alle mie spalle? Davvero l'onnipotente Cesare è più schiavo dell'ultimo dei suoi scribi!”.
In quel momento, il rumore di un tafferuglio proveniente dal corridoio interruppe le amare riflessioni dell'imperatore. Cesare alzò la testa, stupito: chi osava scatenare una rissa proprio davanti alla sua porta?
- Numi dell'Olimpo, come ha potuto giungere fin qui questo facinoroso? Arrestatelo, è certamente un sicario pagato per colpire la sacra persona dell'imperatore! - urlava a perdifiato il pretoriano di guardia, chiamando i commilitoni a dargli man forte.
- Sicario un corno, per Plutone, Nettuno e tutti i figli di Rea! Il senatore Publio Aurelio Stazio sta aspettando questo plico, devo consegnarglielo a qualunque costo! L’imperatore deve vederlo: contiene le prove di una congiura!
- Portate via questo scalmanato, presto! - comandò l'ufficiale, e i pretoriani afferrarono il malcapitato, sollevandolo a forza da terra.
Ma Aurelio, intanto, in spregio a ogni etichetta, aveva già dato le spalle al padrone del mondo e si era precipitato fuori.
- Domine, finalmente mi hai sentito - sospirò Castore, liberandosi lesto dai due robusti soldati che lo stavano trascinando via. - Capisco Claudio, sordo com'è, ma tu...
- Cosa vuole quest'uomo? - chiedeva in quel momento il principe che, zoppicando a fatica, era arrivato sulla soglia.
- Consegnarti le prove della cospirazione ordita ai tuoi danni da Sergio Maurico e da Papio Fazio, come mi è stato ordinato dal mio padrone Publio Aurelio, senatore di Roma! - rispose Castore trionfante, mentre rimetteva nelle mani di Claudio un grosso pacco di lettere.
Il vecchio aprì il plico in piedi sulla porta, appoggiandosi allo stipite con la gamba malata. - Guarda guarda... un accordo tra Maurico e Fazio, cinque anni fa. Sergio che raccomanda prudenza al generale...
Aurelio, incredulo, sentì l'eccitazione montargli dentro, mentre la bocca gli si apriva in un riso di gioia. Frattanto Claudio continuava a esaminare le lettere: - I documenti sul tradimento di Fazio: un affare losco coi Parti, con la complicità di Sergio! Adesso ricordo: una pattuglia fu attirata in un agguato e nessuno ne uscì vivo. E guarda qui: c'è persino una lettera di Sergio a Cassio Cherea, che data dal regno di Caligola. Vi si parla della necessità di sopprimere tutti i membri della famiglia imperiale, me compreso. Ce n'è abbastanza per convincere non solo Roma, ma tutto l'Impero! Miei fedeli britanni, arrestate quest'uomo! - ordinò gridando di esultanza, e due giganti dai capelli rossicci si avventarono sull'avvocato a mani nude, liberandosi delle loro lunghe lance con un gesto repentino. Aurelio se ne vide una arrivare in testa, ma non fece in tempo a scansarsi: il colpo, per fortuna, fu meno duro del previsto e lo ferì soltanto di striscio.
Un attimo dopo si lanciava all'inseguimento di Sergia, in fuga disperata attraverso le stanze del Palazzo. La donna, infatti, approfittando della confusione, si era dileguata lungo il corridoio e aveva quasi raggiunto la scalinata d'onore che conduceva all'uscita.
Aurelio la scorse di lontano, mentre imboccava la scala, e capì che non sarebbe giunto in tempo a fermarla. Sergia, ormai quasi in salvo, strillò dalla gioia scendendo a precipizio il primo gradino.
Un istante dopo, il grido di trionfo si mutava in un urlo terrorizzato. Aurelio arrivò al parapetto in tempo per vederla precipitare in avanti, a testa in giù, e schiantarsi sul pavimento dell'atrio, col collo spezzato come la povera Nissa.
Il patrizio ne fissò il corpo senza vita, ringraziando il Fato per quella provvidenziale caduta che aveva risparmiato alla donna le tenaglie del boia e l'onta del patibolo.
- È sempre un piacere dare una mano a un intenditore di musica! - lo salutò Lucio Domizio, mentre dondolava con ostentazione un piede esageratamente grande per la sua età, che a forza di esercitarsi a sfuggire alle balie doveva aver acquistato una straordinaria destrezza nello sgambetto.
Con una strizzatina d'occhio, il bambinetto salutò il patrizio e trotterellò cantando giù per le scale.
- Magnifico, Aurelio, magnifico! Per un attimo ho creduto che tu stessi per capitolare, anche se in cuor mio sapevo che non avresti fallito! - lo abbracciava Claudio, grato. - E formidabile anche il tuo amico. Non credo di conoscerlo...
- Castore di Alessandria, per servirti, nobile Cesare! – si presentò il liberto, sprofondandosi nel suo inchino più ossequioso.
- Vieni a bere con noi, Castore, dobbiamo festeggiare. E ai prossimi ludi, ti voglio vicino a me, sul palco d'onore - disse Claudio, e Aurelio tremò, pensando a quello che l'impudente alessandrino avrebbe potuto proporre alla disinvolta Messalina.
I tre levarono le coppe in alto, per brindare, non senza aver versato a terra qualche goccia di vino, per ringraziare gli dei propizi.
- A Marte e a Venere, patroni di Roma! - fece l'imperatore, oscillando leggermente: quella non era certo la prima coppa di vino della sua intensa giornata.
- A Hermes, dio dei... - e Castore, dando prova di un tatto insperato, corresse il suo solito brindisi, subito prima di pronunciare la parola “ladri”.
- Commercianti! - terminò infine, soddisfatto della formula escogitata.
- Io brindo a Claudio, il nostro dio! - alzò il calice Aurelio.
Proprio quando stavano per portare di nuovo i nappi alla bocca, un altro acuto stonatissimo ferì loro i timpani.
- Per carità, fate star zitto Lucio! - comandò irritato l'imperatore, spiegando: - Da quando ho concesso a mia nipote Agrippina, che è ancora in esilio, di mandar qui suo figlio, le mie orecchie non conoscono pace!
Aurelio annuì: conosceva Agrippina, l'acerrima rivale dell'imperatrice. Avara, arrogante, assetata di potere, l'indegna figlia del grande Germanico era arrivata a commettere incesto col fratello Caligola pur di non perdere l'ascendente che aveva su di lui, mentre il marito, Domizio Enobarbo, assisteva alla turpe tresca senza protestare, legato com'era, a sua volta, alla sorella Lepida da un affetto ben poco fraterno.
Povero bambino, quel Lucio, chissà che esempio gli davano simili genitori... Per fortuna pareva sensibile all'arte, anche se privo di qualunque talento.
- Lascialo cantare, Claudio, se lo merita: ci ha reso un buon servizio! - rise Aurelio, raccontando del tempestivo sgambetto.
- È uno stravagante, come tutti i Giulio-Claudi – scherzò il principe, già un po' brillo. - Pensate che il più normale sono io!
E, in un cameratesco abbraccio a tre, servo, patrizio e imperatore vuotarono assieme i loro calici.
Dopo due ore di bevute e parecchie partite a dadi in cui, con grande costernazione di Aurelio, Castore non si era trattenuto dall'usare la sua versatile abilità di baro contro l'imperatore in persona, il greco si ritirò col prezioso invito per i ludi, lasciando soli i due vecchi amici.
- Aurelio, cosa posso dirti? Ti ho chiesto di scoprire l'assassino di un gladiatore, e tu hai messo le mani su una congiura... ho sempre saputo che eri in gamba, ma non credevo che arrivassi a tanto! - disse ridendo il vecchio.
- Sono stato fortunato - si schermì modestamente Aurelio, vuotando l'ultimo nappo.
- Adesso che ti ho ritrovato, non ti lascerò andare così tranquillamente. Non crederai di poter tornare ai tuoi libri, alle tue statue e alle tue affascinanti matrone... - e qui Claudio strizzò l'occhio con complicità: non era un mistero per nessuno che il principe aveva un debole per le belle donne - ...lasciando il tuo maestro di etrusco alle prese con tutte le scartoffie dell'Impero!
- Non farmi questo, Tiberio Claudio Cesare - replicò il senatore, diventando improvvisamente serio. - Sarebbe un dispetto troppo grosso per un amico che ti ha aiutato.
- Davvero non vuoi? Ho così poca gente di cui fidarmi...
- Tua moglie, i tuoi ministri...
- Ah, Narciso e Pallante sono abilissimi, certo, ma fanno i loro interessi prima dei miei. E Messalina è giovane, troppo giovane per me - sospirò con voce strascicata, scolando l'ennesima coppa. L'imperatore aveva bevuto molto, e non reggeva più tanto bene il vino. - Lo so che ha degli amanti, che cosa credi? Non sono scemo, anche se una volta, prima di indossare questa porpora, mi chiamavano “Claudio l'idiota”. Ma lei ha quasi quarant'anni meno di me, e io devo far finta di niente, capisci, perché tradire l'imperatore è un reato contro lo Stato e, se la accusassi, dovrei anche condannarla. Io invece la amo ancora, malgrado tutto; poi è la madre dei miei piccoli, bellissimi Ottavia e Britannico... somigliano tanto a Valeria, non si direbbe nemmeno che siano figli di uno scimmione come me!
Aurelio annuì, senza rispondere. Certo, Claudio era al corrente dei disinvolti costumi di Valeria Messalina... ma fino a quando avrebbe potuto fingersi cieco e sordo?
- Dov'eravamo rimasti? Ah, sì, l'incarico a corte – insistette il principe.
- No, Claudio: è la mia ultima parola - si irrigidì il senatore.
- Allora sia come tu vuoi, Aurelio. Ma almeno, fammi anche tu l'onore di sedere al mio fianco domani, durante i ludi gladiatori!
- Niente ovazioni, però: ho i timpani piuttosto deboli - si raccomandò il patrizio, ascoltando le false rassicurazioni del principe.
Acclamato nell'arena... be', su molte signore avrebbe fatto effetto, si consolò, e decise di stare al gioco.